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Danza e Meditazione A ritmo di cuore

«Respirare con consapevolezza ci fa tornare a noi stessi e alla vita». Buddha Shakyamuni



Nella pratica della meditazione zen il primo koan che viene dato al principiante è il respiro.


Seduto su un apposito cuscino (zafu), preferibilmente nella posizione del loto, (ma anche su una sedia nei casi in cui la persona abbia difficoltà a mantenere la posizione) l'adepto si concentra sul proprio respiro.


Colonna vertebrale e nuca ben allungate, si porta l’ attenzione ai punti di appoggio: il peso del corpo non ricade solo sul bacino ma si distribuisce anche sulle ginocchia; importante è anche la dimensione del cuscino o zafu; esso deve essere predisposto per ogni persona con cura e pazienza. L’altezza del cuscino cambia a seconda della postura di ognuno. Il Buddha usava l’erba tagliata da un gentile giovane pastore. Ai giorni nostri è esperienza gratificante costruire il proprio cuscino modificando via via l’imbottitura. Le prime volte può essere utile sedersi su un cuscino piuttosto alto.


Mano a mano che il meditante si tranquillizza e si abitua alla pratica, il respiro scende nella zona del ventre (hara), nel punto a circa tre dita sotto l'ombelico (tanden), dove si trovano le mani nel mudra della meditazione (dyãnamudrã): la sinistra sopra la destra, con quattro dita che combaciano mentre i pollici si congiungono, senza tensione, a creare un ovale.


Possiamo provare subito: così come ci troviamo, appoggiamo un attimo il libro e ascoltiamo il nostro respiro.


Contiamo i respiri: la vocale si prolunga nell’espiro; mentalmente pronunciamo uuuuuno, duuuuue, treeeeee, e così via fino a dieci. Poi riprendiamo da capo.

Se la nostra mente scappa, non sgridiamoci, non arrabbiamoci, semplicemente riprendiamo da uuuuno. Espiriamo a fondo e lasciamo che l'inspirazione avvenga naturalmente. Così come siamo, va bene; mentre leggiamo ascoltiamo il respiro, giriamo la pagina e ascoltiamo il respiro, chiudiamo il libro; ascoltiamo il respiro.

Qualsiasi cosa facciamo è respiro, uuuno, duuue, ovunque.

Proviamo a farlo ovunque: non ci sono controindicazioni!

Uuuuno, duuuue, treeee, tutto noi stessi nei respiri, fino a che non «sono» il mio respiro.


Divento il mio respiro.

Lascio che succeda.


Lo zen migliore è quello dei principianti. La danza migliore è quella del bimbo che gioca.

Perché? Forse perché nel principiante c'è questo divenire uno con la propria scoperta, la gioia della prima volta fa abbandonare l'idea preconcetta che si poteva avere sulla cosa, l’altro da sé, fa dimenticare lo sforzo di adeguare l'esercizio a sé, o sé all’esercizio.

Danziamo. Respiriamo.

Non dualismo.

Riprendiamo i respiri, fino a dieci. Se il nostro respiro è ancora alto, nella parte superiore della cassa toracica, ascoltiamolo lì dov'è, non forziamo, concediamoci di aspettare che scenda.

«Portiamo l'attenzione alle mani, al palmo sinistro, come se avessimo tra le mani una palla che respira».

Serve la musica? No. Serve il silenzio? No. Serve un'immagine? No. Serve lo specchio? No. Serve l'incenso? No.

Serve solo che qualcuno si sieda, a gambe incrociate, nell'immobilità, con la schiena allungata ma non rigida. È possibile!

Se volevate una tecnica più complicata sarete delusi.

E molto più semplice, nello zen la tecnica di respirazione è: «Sii il tuo respiro: unità, non dualismo».


Perché questo può servire alla danza?

Voglio, danzando, divenire una con le mie danze, sparire con esse, viverle.

Mary Wigman


Ritroviamo anche qui: unità, non-dualismo tra chi danza e la danza.

Quando non riusciamo a compiere una sequenza di danza, o anche un'azione del vivere comune, nasce dentro di noi un disagio, un senso di inadeguatezza, di scissione.

Qualcuno dentro di noi non accetta l'errore, inizia un combattimento interno e tra «noi» e l'azione la distanza diventa enorme.

Quando iniziai a insegnare mi accorsi subito che le persone traevano giovamento quando proponevo, anche prima di una sequenza di danza, alcuni momenti di concentrazione sul respiro. Nei laboratori di Danza Terapeutica brevi pause di meditazione si intrecciano alle proposte, creando un ritmo di gruppo, una sorta di respiro collettivo in cui ognuno diviene consapevole delle diverse fasi del «lavoro» e della propria autonomia e libertà in relazione alle necessità del gruppo.

Ci si può disporre tutti in cerchio rivolti verso l'interno: questo favorisce la comunicazione creando delle relazioni profonde tra i partecipanti.

Spesso però si pratica in una modalità più tradizionale: ognuno di fronte al muro.

In questo modo si lavora soprattutto sulla centratura del terapeuta per imparare a stare con ciò che avviene dentro e fuori di sé anche nei momenti di disagio.


C'è una esperienza di Danzaterapia che Maria Fux propone con una sedia.


Maria così introduce il lavoro:

La sedia è l’ “immobile" che c'è dentro di noi.

Ogni persona si relaziona con una sedia, una sedia qualsiasi, la sedia della cucina che usiamo sempre senza pensarci, senza dirle grazie, ogni giorno.

Quando l'esperienza viene proposta per la prima volta, ogni partecipante di solito afferra la sedia facendole fare cose mirabolanti; la sedia è il partner ideale, le facciamo fare tutto ciò che vogliamo. Ci facciamo prendere, ancora una volta, dal fare. Generalmente sono i danzatori a interpretare questo esercizio come un nuovo spunto coreografico: si inarcano sulla sedia, scivolano su e giù, spaccano le loro membra in artistici giochi di linee, fanno volare la sedia, poi la riafferrano per slanciarsi con lei nello spazio.

In questi casi il « No! » di Maria risuona nella sala.

«Lasciate la sedia com'è, in posizione normale, lei è "l'immobile" che c'è dentro di noi, potrebbe essere un malato che non può muoversi».

Nasce una relazione affettiva, profonda: chi è dunque la sedia?

Quando alla fine ci risiediamo, ritrovandoci in posizioni diverse, sperimentiamo un nuovo senso di accoglienza: la sedia ci accoglie, siamo cambiati e nello stesso tempo ci sentiamo anche più auto-accoglienti.

Se siete seduti su una sedia mentre state leggendo, mettete una musica che vi piace, con un ritmo non troppo veloce, forse meglio un andante. E dedicate cinque minuti a questo ascolto di sé danzante.


Se anche qui cercate una tecnica, tranquillizzatevi: non si tratta di danzare lo Schiaccianoci con la sedia! Tutti possono eseguire questo lavoro: l'ho apprezzato mentre osservavo compiersi il cambiamento in persone molto anziane o malate, che non potevano nemmeno alzarsi dalla sedia. I movimenti, anche se minimi, possono avere grande intensità. Provate a guardare la sedia, a toccarla, a lasciar fluire la vostra immaginazione.


Come state respirando adesso?

La risposta a questa domanda, che potreste sentire in tutto il vostro corpo, permette lo scorrere di un'energia di relazione.

La sedia è sempre una sedia, ma può assumere il ruolo di parti di noi che ci vogliono parlare, può rappresentare l'altro, quell'altro che spesso vorremmo aiutare ma ... Che cosa ci sta realmente chiedendo?


L'immobile ci insegna ad ascoltare, a non volere a tutti i costi cambiare l'altro, a non fare in modo che risponda alle nostre proiezioni, e soprattutto ai nostri desideri di volerlo guarire.


È il nostro corpo ad adattarsi alla sedia e a trovare ogni volta un linguaggio di cui la respirazione, atto unico ma composto da due momenti, è la chiave.


Naturalmente quanto detto assume la stessa valenza con i diversi materiali con cui entriamo in relazione secondo le diverse tappe definite in DMT tra Oriente e Occidente:

incontro - contatto - trasformazione - distacco.


Con bambini e adulti lo proponiamo con strumenti musicali, con diversi tipi di stoffe, con diverse qualità di musica.


Un giorno, dopo la lezione di danza, le bambine corsero a comprarsi un pezzo di stoffa per averlo con sé anche a casa; andarono subito dopo la lezione, volando sul filo dell’emozione vissuta: quel pezzo di stoffa era più che un giocattolo, quella stoffa respirava, quella stoffa aveva raccontato loro una storia infinita. Presenti a loro stesse nella relazione con l’altro, le bimbe erano divenute consapevoli dell’organico intreccio con il tessuto del mondo!


Inter-essere, una nuova parola proposta dal Maestro Tich Nhat Han. Inter-essere non solo con le persone, ma con le cose e soprattutto con noi stessi, con le nostre emozioni.


Forse tutto questo può sembrare troppo poetico, troppo strano, troppo sentimentale, ma proviamo a togliere la parola troppo e, come nel conteggio dei respiri, diventiamo poetico, e, perché no, diventiamo strano, diventiamo sentimentale.

Esprimiamo il nostro sentimento.


Può essere poetico-arrabbiato, poetico-triste, poetico-allegro.

Poetico=creativo.

Prendiamo una penna: relazioniamoci; apriamo una porta, osserviamo una crepa nel muro, sentiamo il nostro passo sull'asfalto o sull'erba, guardiamo negli occhi la persona davanti a noi.



E’ proprio lei, qui e ora, la persona più importante del mondo.


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